Trovare le risposte alle tante domande che ci pone questo tempo complesso. E’ così che sono nate in questi mesi diverse attività alla parrocchia di San Marco, rivolte a tutta la comunità: dai sostegni materiali tramite la Caritas parrocchiale a virtuose forme di integrazione per non abbandonare gli anziani e le persone che più hanno sofferto a causa della pandemia. Per farci raccontare come la parrocchia si pone come punto di riferimento per animare la comunità, abbiamo contattato il parroco don Davide Farrina e la catechista Marina Fabbri, attiva in diversi progetti.
Don Davide Ferrini è nato a Russi l’8 marzo 1966. È stato ordinato sacerdote nel 1990. Ha prestato servizio ad Alfonsine e, nel 2019, è parroco di San Marco a Faenza.
Come ha accolto la sua comunità il lockdown?
È stato prima di tutto una specie di shock muto. Si percepiva un senso di dissociazione interiore provocato da una situazione inedita. Da una parte la testa riesce a comprendere le ragioni dell’isolamento, ma le reazioni emotive scatenate da qualcosa di inaccettabile e lasciano profonde ferite nell’anima. L’ampia gamma delle reazioni umane è stata percorsa in lungo e in largo, dal sublime al tragico.
Quali storie le hanno lasciato un segno?
Una signora che frequenta la parrocchia, mi si è presentata alla porta nella prima domenica di lockdown supplicandomi di fare la Comunione. L’ho invitata a pregare insieme, ma non sentiva ragioni, anche le più benevole. Aspettative e vissuti esistenziali diversi portano con sé comprensioni diverse del significato dei segni, dei simboli e degli stessi Sacramenti che viviamo abitualmente. Pur avendo dovuto affrontare questi nodi, non li abbiamo ancora sciolti. Ma ho pianto con chi ha pianto per non esser stato vicino ai propri cari nei loro ultimi momenti.
Come ha vissuto lei in prima persona il lockdown?
Celebrare una Messa senza concorso di popolo e solo “con” se stessi significa farsi la domanda e darsi la risposta da soli: si vive una situazione di estraniamento, alla Brecht. Poi Dio tutto abbraccia, ma il mistero di Cristo si svolge “in noi”, non solo nelle forme in cui lo vogliamo maldestramente classificare. Il lockdown per me è stato un periodo molto ricco vissuto in una gabbia dorata: ogni giorno era “abitato” dalle telefonate dei parrocchiani e degli amici, ho pregato tanto, ho finito di leggere le Récherchesdi Proust, ho finito la Teodrammaticadi Balthasar, ho ripreso l’ebraico, il pianoforte, ho scritto, ho parlato tanto.
Come siete “ripartiti”?
Direi che non ci siamo mai fermati. “Il cuore pulsante della baracca” era più che mai vivo, anche se le condizioni erano avverse. Nonostante tutto, ci obbligavano a mettere in piedi le nostre migliori energie. Si riparte ogni giorno, se si vuole.
Quali attività avete messo in piedi sia come Caritas parrocchiale e attraverso i vari gruppi?
La Caritas ha continuato la distribuzione viveri con una “consegna a domicilio” studiata secondo un protocollo fornitoci dalle autorità sanitarie e in accordo con il Comune e le forze dell’Ordine. Ogni componente della Caritas ha “adottato” una famiglia e se ne è fatta carico. Gli scout si sono resi disponibili in progetti cittadini di solidarietà coordinati in rete con Pronto Soccorso, Protezione civile e altre associazioni.
Quale segno lascia questo momento difficile della vita parrocchiale?
Tornare alla normalità delle relazioni è già un bell’obiettivo, ma ogni situazione ha le sue sfide e vivere prevede di lasciarsi provocare sempre da ciò che ci circonda. I limiti esteriori ci saranno sempre, anche nelle migliori condizioni, mentre quelli interiori ce li costruiamo da soli ogni giorno. Lo Spirito ci dona la capacità di andare oltre.
Marina Fabbri ha 46 anni. Da un anno gestisce a Formellino un centro ricreativo per anziani, dopo aver lasciato un solido lavoro presso un importante istituto di credito. A San Marco oltre a fare la catechista segue il gruppo anziani.
Quali attività svolgevate prima del marzo 2020?
Da circa dieci anni abbiamo creato un gruppo di anziani, nella maggior parte si tratta di persone sole, che partecipano ai nostri incontri il sabato pomeriggio. A marzo 2020 eravamo arrivati ad avere un gruppo di trenta persone. Avevamo istituito un servizio navetta per chi si trovava fuori dalla parrocchia. Dopo il catechismo facevamo un momento di preghiera, la tombola e merende. Gli anziani si preparavano le proprie torte, che poi condividevano. La chiave di lettura è, secondo noi, l’integrazione. Per fare un esempio, finito il catechismo, qualche bambino aveva piacere di rimanere aiutando a leggere le cartelle, tagliare e distribuire le torte, o ascoltare i nostri anziani. Cinque anni fa con il nostro gruppo degli anziani siamo entrati nel progetto della Caritas “C’è speranza nei miei giorni”, e quindi è stato bello perché ci venivano a riprendere, sia per visite domiciliari che per le attività. Quando non potevano uscire oppure erano in ospedale, li andavamo a trovare: abbiamo creato una sorta di “welfare” di comunità. Questo poi si è esplicitato anche con la distribuzione dei pacchi, attraverso la Caritas parrocchiale, alle famiglie bisognose. Anche l’incontro con queste realtà difficili in realtà, come col gruppo anziani, si trasforma in festa.
Poi è arrivata la prima chiusura totale…
Purtroppo, abbiamo bloccato i sabati pomeriggi in presenza. Tuttavia, nonostante la pandemia, le famiglie ci hanno chiesto visite a domicilio, oltre al contatto telefonico che era costante. Ma il telefono non era sufficiente. Gli anziani quando ci vedono ci dicono che siamo una boccata d’ossigeno: sono persone chiuse in casa, e non hanno nessuno con cui parlare. La cosa più importante è ascoltare le loro paure, ma anche le loro gioie e i loro bei ricordi del passato. Una signora, completamente sola, mai sposata e senza figli, con qualche difficoltà, ha compiuto gli anni il 19 marzo, giorno di san Giuseppe: le ho portato alcuni braccialetti e alcuni anelli miei che non uso più. Piccoli gesti, e per lei è stata la cosa più grande che io potessi fare. Ogni operatore Caritas ha creato un’amicizia forte con le famiglie, tanto che alcuni ci hanno chiesto di fare da madrina o padrino a questi bambini. Si creano rapporti incredibili. Ad aprile, quando usciremo dalla zona rossa, partirà a San Marco il Centro d’ascolto, una nuova avventura.
Quale sarà il futuro?
Nella mia piccola esperienza posso dire che continuare a stare vicino a chi a bisogno ti dà leggerezza: il momento in cui senti che si fa del bene agli altri, hai anche più speranza. Quando ripartiremo, noi inviteremo tutti e ritelefoneremo a tutti. E sarà una gioia.
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