Oksana, 37enne ucraina, mostra un video. Gliel’ha girato poco fa un suo amico rimasto a Sumy, la sua città, nel nord-est dell’Ucraina, al confine con la Russia. Nel paesaggio appare un aereo. L’ha girato da casa sua, non ha dovuto fare nemmeno lo sforzo di muoversi. Come se noi stessimo filmando col telefonino da corso Mazzini o via Corbari. Pochi chilometri più in là, da quell’aereo cadranno delle bombe. E questo succede ogni giorno. Tutta l’area attorno a Sumy è distrutta. Nei giorni scorsi una fabbrica di vernici è stata colpita, provocando una fuoriuscita di gas tossici. Non ci sono polizia o forze armate a risolvere questa emergenza nel bel mezzo della guerra: si sono tutti spostati a Kiev. Oksana, madre di un bambino di 7 anni e di un ragazzo di 17, ha deciso di partire e il 16 marzo è arrivata a Faenza, dopo sei giorni di viaggio, tenendosi in contatto con un’amica già residente qui.
Con lei, altre 23 persone sono ospitate al monastero Santa Chiara. Sei famiglie che provengono da aree anche molto diverse dell’Ucraina. Il vescovo Mario fin dall’inizio dell’emergenza ha risposto al grido di aiuto di tanti profughi ucraini costretti a lasciarsi alle spalle una casa, una vita, dei familiari rimasti al fronte. Al fianco di queste persone in fuga, un’onda solidale che ha coinvolto la Diocesi, la Caritas, le parrocchie. «Grazie per tutto quello che state facendo» dice Oksana, mettendo via il telefonino e ritrovando il sorriso.
La tavola è imbandita. Come a casa Bersana, anche qui si sta formando una piccola grande comunità, una risposta concreta all’assurdità della guerra. Oltre ai volontari della Caritas e alla custode Anna, tanti parrocchiani di San Francesco e Sant’Ippolito si sono stretti attorno a queste famiglie. Una signora ha portato pochi minuti fa dei giochi per bambini, gli scout si sono offerti di fornire presenza notturna. E ogni giorno nasce un nuovo episodio di generosità. «Con delle mie amiche abbiamo un gruppo whatsapp che ormai coinvolge una trentina di persone – racconta Roberta, volontaria Caritas -. Ognuno dà il proprio contributo per aiutare, per esempio, facendo la spesa». E dalla spesa poi si passa ai fornelli: Roberta il giorno dopo insegnerà alle famiglie ucraine a fare il tipico ragù romagnolo.
La comunicazione non è facile, visto che in pochi sanno l’inglese. A dare una mano come interprete è Nadia, una donna ucraina arrivata in Italia 20 anni fa come badante. Era vedova ed è partita all’epoca per dare un futuro al figlio 16enne. Una sua nipote è ora ospite a Santa Chiara con due bambini. In Ucraina è invece rimasta la madre, di oltre 70 anni. «Lei non è voluta venire; ha detto che se deve morire, morirà là, nella sua terra – dice Nadia –. Dopo vent’anni di lavoro in Italia, pensavo di poter tornare a trascorrere in serenità la vecchiaia in Ucraina, mi sembra tutto così assurdo». Questa famiglia divisa tra Italia e Ucraina è di Leopoli. All’inizio del conflitto sembrava un luogo ancora al sicuro, poi la guerra è arrivata anche lì. Nel provare a dare una risposta all’assurdità di tutto questo, Oksana risponde: «Vogliamo vivere in un Paese libero e democratico, avere libertà di parola. Non vogliamo farci imporre un presidente fantoccio».
L’accoglienza da parte della Diocesi non si ferma. «La situazione è in continua evoluzione – dice il direttore Caritas, don Marco Ferrini – ed è difficile fare considerazioni a lunga scadenza. In sinergia con Prefettura e Comune, ora stiamo attivando le collaborazioni per l’ospitalità che hanno dato i privati. Man mano valuteremo le soluzioni migliori a seconda delle fragilità che ci troveremo di fronte». La corsa burocratica e logistica per dare una casa trova però tanta gratificazione e fraternità. «Umanamente – conclude don Marco – sono stato testimone in questi luoghi di un clima davvero accogliente e ricco di fiducia reciproca».
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